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TRA IL DIRE E IL FARE C’È DI MEZZO IL MARE

I Liberi Nantes hanno attraversato il mare, come tanti in questi giorni, e pur appartenendo a popoli diversi si sono riuniti attorno a un campo e a un pallone. Ecco la loro storia.

Un allenamento al campo XXV Aprile di Pietralata a Roma.

Tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare. Così come tra il calcio e le parole del calcio. Andiamo per ordine e incominciamo dal campo. Hanno scelto di chiamarsi “Liberi Nantes”, nuotatori liberi, e li unisce il linguaggio del calcio. In questi giorni hanno lanciato l’allarme: rischiano di cessare l’attività e affidano le loro speranze a una campagna di crowfunding, raccolta fondi per dirla semplice. Questa è la loro storia. Si chiamano “Liberi Nantes” perché il mare l’hanno attraversato per venire in Italia, lasciandosi alle spalle guerre e persecuzioni. Hanno provato paura e pregiudizi. Il progetto di costituire una squadra di calcio è nato nel 2008 grazie all’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (ACNUR) ed è sostenuto dal CIR, Consiglio italiano rifugiati, dalla Fondazione Astalli e dalla Fondazione Don Luigi Di Liegro. Sono venuti dal Sudan, dall’Afghanistan, dal Congo, dalla Nigeria e dall’Eritrea. Paesi e lingue diverse, in comune l’italiano e il fatto di essersi ritrovati a Roma, ospitati nei centri di accoglienza. Lavorano, vivono, cercano futuro e speranza. Come tutti, persone con radici lontane, cittadini chissà. Hanno trovato il calcio, giocano in terza categoria ma fuori classifica e partecipano a manifestazioni Uisp.

Una locandina del film sui Liberi Nantes.

UNA STORIA DA CINEMA

Alcuni giocavano già a calcio nel loro paese, hanno difficoltà a partecipare regolarmente agli allenamenti. Molti calciatori professionisti non trovano ostacoli alla loro integrazione. Loro sì, anche perché il calcio che giocano non è illuminato dai riflettori e passa attraverso il campetto “XXV Aprile” di Pietralata, periferia est di Roma. Rettangolo di gioco, spogliatoi e gradinata per gli spettatori che hanno ristrutturato e risistemato insieme ai dirigenti della squadra e ai volontari del quartiere, che si sono uniti a loro.

La loro storia è diventata un film, “Black Star-Nati sotto una stella nera”, uscito lo scorso anno. Non hanno sponsor e i problemi economici rischiano di porre la parola fine a questa storia. Anche perché le aspettative sono aumentate e l’attività sportiva si è allargata a circa 200 ragazzi e ragazze, che dal calcio sono passati al touch rugby, senza contatto fisico, e alle scuole di italiano.  In questi giorni hanno lanciato una campagna di crowfunding: “Regalaci un pallone, regalaci una domenica”.

Testimonial della campagna sono padre Giovanni La Manna, Carlo Paris, Paul Elliot, Luca Di Bartolomei, Carlotta Sami (Unhcr), Vincenzo Manco (Uisp). Se volete donare basta un clic per connettersi al sito internet dell’iniziativa: www.liberinantes.org/new/crowfunding.

 

IL PESO DELLE PAROLE

Questa è la seconda storia che vogliamo raccontare, andata in onda di fretta, in questi giorni. In un mare denso di contraddizioni, culturali e linguistiche, una storia di parole di dirigenti, di numeri uno, di tecnici o di ex-allenatori del nostro calcio. Persone ben remunerate per fare egregiamente il loro lavoro, con responsabilità educative ed etiche che sconfinano oltre le strisce bianche del perimetro verde. Questo è il bello del calcio: l’estrema popolarità. O no? Non basta saperlo o raccontarlo nei talk tv, occorre farlo. I Liberi Nantes, ad esempio, non sono “negri” o “mangia banane”, sono persone. È difficile? Eppure periodicamente alcuni signori ci ricascano. È cronaca di questi giorni, da Sacchi a Capello, passando per Ancelotti. Nomi noti e rispettati. E dopo le affermazioni, le smentite e le giustificazioni puerili o involontariamente comiche. 

Possibile che i problemi sono sempre altri? Noi giornalisti abbiamo delle responsabilità e per questo nel giugno 2008 è stata approvata la Carta di Roma. Un buon codice deontologico, nato dalla collaborazione tra Ordine dei giornalisti, FNSI e UNHCR. L’obiettivo è quello di fornire a chi informa delle linee guida che facilitino un racconto equilibrato ed esaustivo su richiedenti asilo, rifugiati, vittime della tratta e migranti.  I giornalisti devono “adottare termini giuridicamente appropriati”. A chi il compito di formare dirigenti e tecnici di calcio in grado di rispettare il significato delle parole? E la semplice dignità delle persone? In un Paese in cui “buongiorno”, significhi davvero “buongiorno”?

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