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La vittoria più grande

Il racconto di Marco, la sua passione per il calcio e il percorso che lo ha aiutato a ritrovare se stesso, in campo e nella vita.

Incominciamo a parlare della “nazionale” di San Patrignano dalla prospettiva di uno dei suoi elementi. Marco, 22 anni, a fine percorso qui in Comunità. La sua è una storia che affonda le radici in un disagio familiare profondo, sfociato nella tossicodipendenza. Per lui il gioco di squadra è stato lo strumento essenziale nella presa di coscienza di ciò che lo aspetta in futuro quando dovrà assumersi importanti e delicate responsabilità.

«Mi ricordo molto bene la mia prima partita a calcio qui in comunità. Era un venerdì di aprile, precisamente il 9 del 2010. Ero entrato il giorno prima, più per fare un piacere ai miei che per mia volontà. Inutile dire che non avevo voglia di fare nulla però, coinvolto subito dai ragazzi, mi sono fatto convincere e sono sceso in campo anch’io per la partitella settimanale. Il calcio per me, prima di scoprire il mondo dello sballo, era al centro di tutto. Cominciai a giocarci a 6 anni, età in cui i miei mi iscrissero a una scuola calcio. Fin da subito si vide che me la cavavo niente male, così mi facevano giocare con quelli più grandi. Da lì in poi fu tutta un’escalation fino ai 14 anni, anno in cui fui convocato dalla rappresentativa della mia regione per andare a disputare un torneo nazionale.»

La "nazionale" di San Patrignano

Rinasce l’entusiasmo

«Poi si sa, le cose nella vita non vanno sempre nella direzione che desideriamo, e così il calcio piano piano perse di interesse a favore di altre “cose”, e mi ritrovai così a mollare la mia passione più grande. Quel venerdì 9 aprile 2010, saranno stati più o meno 3 anni che non toccavo un pallone. In mezzo al campo ero spaesato, apatico… nullo, direbbe un allenatore. Insomma, l’esatta fotografia di quello che ero. Partita dopo partita, però, rinasce in me quell’entusiasmo perduto. Scopro che il calcio mi piace ancora molto, anzi, forse anche più di prima. Settimana dopo settimana il momento che più aspetto è quello dove posso scendere in campo con i miei amici. Arriva così il giorno in cui il mio responsabile mi propone di entrare a far parte della rappresentativa della comunità, la cosiddetta “nazionale”, che disputa il torneo di seconda categoria in un girone del riminese.»

 

Prima uomini che calciatori

«I primi due mesi sono molto duri. Gli allenamenti impegnativi e, anche se siamo tutti amici, si lotta comunque per avere un posto da titolare. Il nostro mister, Marcello, è molto esigente, ma prima che passaggi giusti e movimenti ben fatti, in campo pretende rispetto, educazione e correttezza. Imparo così che sul terreno di gioco bisogna essere prima uomini che calciatori, e che per farlo devo mettere a dura prova la mia istintività. Il calcio diventa così da semplice hobby un grande strumento di crescita, con il quale posso mettermi alla prova per superare le mie difficoltà. La paura di sbagliare, di non essere all’altezza della fiducia che Marcello ripone in me facendomi giocare, il sentirmi sempre meno degli altri, sono le mie insicurezze che prendono forma. I miei compagni di squadra e soprattutto Marcello non mi fanno mai mancare il loro sostegno, che in alcuni momenti di difficoltà è stato di fondamentale importanza. In tre anni ci siamo tolti delle bellissime soddisfazioni, sia calcistiche sia, soprattutto, umane. Per tre anni consecutivamente abbiamo vinto la Coppa Disciplina, trofeo che viene assegnato alla squadra più corretta dell’intera categoria e che, a pensarci bene, per dei ragazzi che delle regole se ne facevano solo beffe, è stata la vittoria più grande.»

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